Nel 1994 Robert Bauval e Adrian Gilbert hanno scritto un libro intitolato Il mistero di Orione. L’opera, che da allora è stata pubblicata in circa venti lingue ed è ancora disponibile, si basava sulla teoria elaborata da Bauval, allora nuova, secondo la quale le piramidi di Giza intendevano rappresentare la “Cintura” della costellazione di Orione. Le prove a sostegno di questa teoria non rientrano nello scopo del presente volume, ma come tema secondario del libro avevamo discusso anche la leggenda della Fenice egizia, o di un uccello detto bennu. Secondo tale leggenda, che nella sua forma successiva e probabilmente viziata fu riportata dallo storico greco Erodoto, la fenice è un uccello visto di rado, dall’aspetto simile a un’aquila:
«C’è anche un altro uccello sacro, che ha il nome di fenice. Io [Erodoto] non l’ho vista se non dipinta; e infatti raramente viene in Egitto: solo ogni cinquecento anni (così dicono a Eliopoli); e dicono che viene quando le muore il padre. Se somiglia alla sua immagine dipinta le sue dimensioni e il suo aspetto sono come dirò: ha il piumaggio in parte do- rato, in parte rosso acceso. E per forma e dimensioni somiglia piuttosto ad un’aquila. E si racconta di lei quest’impresa, alla quale per conto mio non credo; ma dicono che parta dalla sua terra natale in Arabia e che, portando suo padre avvolto nella mirra, lo trasporti nel santuario del sole, e ivi lo seppellisca. Ecco come farebbe a trasportarlo. Dapprima foggerebbe un uovo di mirra, tanto grande da poterlo portare, e ne tenterebbe il trasporto in volo. Fatto il tentativo, vuoterebbe l’uovo per riporvi il padre, e coprirebbe con altra mirra il punto per dove avrebbe, dopo aver vuotato l’uovo, introdotto il padre. Il quale, posto all’interno, ristabili- rebbe il peso originario; e, sigillato nuovamente l’uovo, lo trasporterebbe in Egitto al santuario del sole. Così dicono che faccia quest’uccello.»
Vi sono varie osservazioni da fare su questa storia, che sembra essere un altro riferimento ai meteoriti sacri. Prima di tutto, il “santuario del sole” citato da Erodoto è un edificio di Eliopoli (un odierno sobborgo del Cairo) conosciuto come il Tempio della Fenice. In esso si trovava un pozzo o santuario sotterraneo, che aveva al centro un obelisco sacro alla fenice egizia o bennu. Contrariamente alla descrizione di Erodoto, essa è descritta nell’antica letteratura egizia e anche in forma di geroglifico sulle mura dei templi, con l’aspetto di un airone grigio anziché quello di un’aquila. Al di là di qualunque leggenda riguardante il suo ruolo nel seppellire il padre a Eliopoli, in genere le sue apparizioni erano considerate come l’annuncio dell’inizio di una nuova era o creazione e i periodi intermedi fra le apparizioni potevano essere molto più lunghi di cinquecento anni. L’egittologo R. T. Rundle-Clark ha messo in relazione l’apparizione della fenice col sole dell’alba che risplende su una pietra piramidale, verticale, chiamata il benben. Lo schiudersi di una nuova era corrispondeva all’inizio di un nuovo giorno, un nuovo anno, un nuovo ciclo di Sirio o qualsiasi altro periodo ciclico:
«Per gli eliopoliti il mattino era segnato dalla luce che illuminava una stele verticale o pyramidion su un supporto capace di riflettere i raggi del sole nascente. All’inizio [dell’evo] un uccello di luce, la Fenice, si era posato sulla sacra pietra, conosciuta come il Benben, per dare inizio alla grande era del Dio visibile. Il sorgere della Collina [primigenia]3 e l’apparizione della Fenice non sono eventi consecutivi ma due afferma- zioni parallele, due aspetti del momento creativo supremo.»
Nelle arti grafiche la Fenice era ritratta come un airone grigio appollaiato sulla cuspide di una sorta di stele sormontata da un pyramidion descritto da Rundle- Clark. Durante l’Antico regno egizio era effettivamente esistita una colonna verticale nel Tempio di Eliopoli, conosciuta come “Pilastro di Atum,” facente riferimento ad Atum, il nome locale dato al dio-sole. In cima a essa era posta una cuspide di pietra chiamata Benben, e la combinazione dei due rappresentò il prototipo di tutti gli obelischi successivi. La parola Benben è interessante di per sé, poiché nell’antica lingua egizia la radice ‘ben’ era legata alla riproduzione sessuale (seme, copulazione, fertilizzare, eccetera). Nel contempo, in lingua ebraica ben ha ancora il significato di ‘figlio di’. La fenice egiziana si chiama bennu, vale a dire ben-nu, che è molto simile a ben-nut. Poiché Nut era il nome della dea del cielo, madre di Osiride e dei suoi fratelli, ben-nu probabilmente significa ‘figlio della dea del cielo’. Se ciò corrisponde al vero, il bennu era pro- babilmente connesso a Osiride, il figlio più importante di Nut, la dea del cielo. Nel frattempo i riferimenti alla dea celeste e ai suoi figli ci riporta naturalmente ai meteoriti e alla probabilità che la pietra benben originale fosse effettivamen- te un simile oggetto di culto. Potremmo però ipotizzare che questo non fosse uno dei tanti meteoriti ritrovati nel deserto, e che fosse stato trovato poco dopo essere visto cadere sulla terra. Essendo in fiamme mentre passava attraverso l’atmosfera, avrebbe avuto l’aspetto di un “uccello di fuoco”. Tuttavia, quando la gente arrivò sul punto d’impatto per cercarlo, non ci sarebbe stata traccia di alcun “uccello”. La sola cosa che avrebbero trovato, e solo se fossero stati for- tunati, era l’uovo dell’uccello: un meteorite che si stava raffreddando. Ciò che però potrebbero aver pensato è che tali rocce provenissero dalle comete.
Nel 1997, vari anni dopo la pubblicazione di Il mistero di Orione, ho avuto il piacere d’incontrare il dott. Victor Clube, allora senior lecturer presso il Dipartimento di Astrofisica dell’Università di Oxford. Come esperto di comete e asteroidi, era uno dei pochi a parlare della possibilità che nel prossimo futuro la terra sarebbe stata colpita da uno o più asteroidi di medie dimensioni. Durante il nostro incontro il dott. Clube mi lasciò di stucco accennando alla probabilità che gli egizi avessero realmente assistito a impatti di meteoriti. Mi spiegò che tali eventi non avvengono isolati e di solito sono associabili alla comparsa di un corpo cometario progenitore (o di frammenti di una cometa) da cui il o i meteoriti si sono staccati. Le comete, affermò Clube, iniziano la loro vita sotto forma di corpi che girano intorno al sole percorrendo orbite che vanno molto al di là del sistema solare planetario. Le interazioni con l’attra- zione gravitazionale di altre stelle o semplici collisioni con altre comete possono tuttavia influire sulle loro traiettorie. Tali eventi casuali possono perfino causare cambiamenti tanto radicali dell’orbita di una cometa da far sì che cominci a visitare periodicamente il sistema solare interno. Sebbene abbiano l’aspetto di oggetti scuri difficili da individuare perfino con un potente telescopio quando sono molto lontane, queste sono le comete che vediamo. Ciò avviene perché quando si avvicinano al sole diventano luminose. L’energia solare fonde una parte del ghiaccio che le compone e delle altre sostanze chimiche più volatili che le tengono insieme, e a causa dell’evaporazione di tali materiali la cometa sviluppa una o più lunghe “code”.
Spogliata delle sue componenti più volatili, il resto della massa cometaria si divide poi per formare un cosiddetto “sciame” di rocce. Le dimensioni di queste ultime possono variare da sassolini grandi come un pisello o più piccoli, fino a enormi massi rocciosi del diametro superiore a un chilometro. Se la Terra dovesse essere colpita sa un esemplare di questi ultimi, è probabile che ciò provochi un evento di estinzione di massa simile a quello cui si attribuisce la scomparsa dei dinosauri. Fortunatamente per noi, simili eventi non sembrano accadere più di una volta ogni cinquanta o cento milioni di anni. Nonostante ciò, si verificano eventi di minore portata con frequenza molto maggiore; la Terra, in media, è colpita da un masso delle dimensioni di cento metri una volta ogni cento anni circa.
Il dott. Clube poi mi spiegò che da un certo numero di anni la sua squadra stava seguendo un particolare ammasso di comete. Mi disse che rappresentava i resti di una super cometa che secondo i loro calcoli era entrata per la prima volta nel sistema solare intorno al 30.000 a.C. Tutte le componenti volatili di questa co- meta sono state spazzate via da tempo a causa del vento solare. Ciò che ne resta oggi è costituito da un ammasso di rocce piuttosto sparpagliate. Da un’appro- fondita analisi dei dati registrati da antichi astronomi cinesi emerge chiaramen- te che quest’ammasso attraversa l’orbita terrestre ogni cinquecento anni circa. Ogni volta che lo fa c’è una forte probabilità che alcune rocce collidano con la Terra sotto forma di meteoriti. Questo fenomeno, afferma Clube, è ciò che sem- bra aver determinato i culti meteorici degli egizi e di altri popoli. Oltre ai meteoriti abbastanza grandi da sopravvivere al passaggio attraverso l’atmosfera, molti altri forse bruciarono come meteore, illuminando il cielo con un vero e proprio spettacolo di fuochi d’artificio. Chiunque assistesse a eventi del genere avrebbe potuto supporre che si trattasse di stelle cadute dal cielo. Un successivo ritrovamento del residuo roccioso di una simile “stella” sarebbe stato interpretato come il segno che gli dei avevano deposto un uovo: l’uovo della fenice.
Sebbene sembri probabile, non sappiamo per certo se il benben fosse un meteorite proveniente da quest’ammasso. Tuttavia, qualunque cosa fosse, all’inizio del Medio regno egizio (circa 1991 a.C.) sia il benben che il pilastro di Atum sul quale un tempo era adagiato sembrano essere andati perduti. È probabile che questo sia successo durante l’Antico regno e prima dell’inizio della V Dinastia (circa 2494-2345). In Il mistero di Orione abbiamo sottolineato il fatto che i re di questa dinastia costruirono le loro piramidi ad Abusir. Si tratta di un sito posto un po’ più a sud di Giza che, se si accetta la tesi che le piramidi di Giza rappresentano la Cintura di Orione, corrisponde più o meno alla sua “testa”. La testa di Orione in realtà si compone di tre stelle piuttosto oscure ma ravvicinate: Lambda, Phi 1 and Phi 2 Orionis, e curiosamente i primi tre faraoni che costruirono delle piramidi ad Abusir erano gemelli tra loro. Oltre a costruire piramidi, ciascuno di loro eresse anche un tempio in onore del dio sole, Ra. Questi templi, formati da un recinto che circonda una collina sormontata da un obelisco a forma di troncone, erano chiaramente modellati sul vecchio Tempio della Fenice. Il motivo per cui li edificarono rappresenta uno dei gran- di misteri dell’egittologia, ma almeno una parte della risposta (e alcuni indizi sulle reali origini della Pietra del Destino) è contenuta nel Papiro Westcar.
Il Westcar prende il nome da Henry Westcar, che lo acquistò nel 1824 e che nel 1839 lo affidò a Karl Richard Lepsius, un egittologo in voga a quei tempi. Oggi è conservato al Museo Egizio di Berlino, ed è indubbiamente uno dei più importanti documenti egizi sopravvissuti fino ad oggi. Si ritiene che risalga al Secondo periodo intermedio, (circa 1786-1567 a.C.), che per coincidenza è anche l’era durante la quale si ritiene vivessero Abramo, Isacco, Giacobbe e gli altri patriarchi di Israele. Tuttavia si tratta quasi certamente di una copia di un papiro ancora più antico che sarebbe stato scritto vari secoli prima, durante il Medio regno. Le storie che narra, però avvengono in tempi ancora più remoti, durante la IVa e la Va Dinastia dell’Antico regno, ovvero l’età delle piramidi. Robert Bauval ed io abbiamo visitato Eliopoli nel 1993, esaminando per conto nostro il famoso Tempio della Fenice. Sebbene l’obelisco che un tempo occupava il posto d’onore fosse scomparso, riuscimmo a vedere il basamento sul quale un tempo poggiava. Ciò che ci interessava di quel tempio era una storia contenuta nel Papiro Westcar riguardante Khufu, il costruttore della Grande Piramide di Giza. In questa storia suo figlio Djedefr? porta a corte un mago di nome Djedi.
Quest’uomo è dotato di rari poteri: ha centodieci anni, può riattaccare la testa tagliata di un’oca all’animale e può costringere un leone a cam- minare ammansito dietro di lui. Ponendogli delle domande, si scopre anche che ha alcune informazioni importanti: egli conosce gli ipwt (numeri) della wnt (stanza segreta) di Thoth a Eliopoli. Khufu gli chiede di dirgli cosa sono quei numeri per poterli utilizzare nella costruzione della sua piramide. Djedi risponde che non li conosce personalmente, ma da dove trovare l’informazione: in una scatola di selce in una stanza chiamata “Ripetizione” nel santuario di Thoth a Eliopoli. Djedi continua dicendo al re che non sarà lui a portargli le informazioni che desidera, bensì il maggiore dei figli contenuti nell’utero di Reddjedet, la moglie di un wab, un sacerdote di Ra. Secondo Djedi, questi bambini sono stati concepiti dal dio sole Ra in persona e un giorno ricopriran- no la carica più importante di quel paese, cioè saranno faraoni.
Questa storia comincia a ricondurci chiaramente ai tre gemelli che costruirono i templi del sole ad Abusir, poiché è proprio a loro che la profezia si riferiva. A Khufu succedettero vari altri faraoni della IV Dinastia ma alla fine Userkaf, il maggiore dei gemelli, salì effettivamente al trono, inaugurando così la V Dinastia. La storia non ci dice se prima egli abbia davvero portato a Khufu le informazioni richieste, ma il racconto di Djedi è comunque affascinante e secondo me l’affermazione che «gli Ipwt della Wnt di Thoth si trovano in una “Scatola di selce”» merita senz’altro un approfondimento. A giudicare dalle apparenze, il suggerimento che una scatola fosse fatta di selce sembra molto strano. Esistevano delle miniere di selce nel deserto orientale dell’Egitto e fino all’età del ferro le pietre di selce continuarono a essere utilizzate come utensili vari e come strumenti chirurgici. Tuttavia, da un pun- to di vista pratico, l’idea che la selce fosse stata usata in qualunque periodo per fabbricare una scatola in cui custodire informazioni segrete sembra molto improbabile. Innanzitutto non si presta allo scopo. Per sua natura è friabile e, sebbene possa essere utilizzata al posto dei mattoni come materiale da costruzione, il suo impiego si riferiva principalmente alla fabbricazione di armi quali lance e teste di freccia. La mia sensazione, perciò, è che in questo senso la traduzione accettata del Papiro Westcar sia errata; la parola “ds”, che qui è tradotta con ‘selce’ e cui è assegnato come determinativo l’affilatura di coltelli, significa qualche altro tipo di materiale. Quale potrebbe essere?
Ebbene, potrebbe sembrare strano e un po’ tirato per le orecchie, ma sarebbe più plausibile una spiegazione secondo cui la “scatola di selce” non fosse una scatola, né fosse fatta di selce. In effetti ritengo che probabilmente si trattasse di un blocco di arenaria abbastanza duro da essere utilizzato per affilare i coltelli, ma ancora abbastanza malleabile da poter modificare la sua forma. Questo suona incredibilmente simile alla Pietra del Destino, o in ogni caso, se non alla pietra che conosciamo oggi con questo nome, almeno a una pietra molto somigliante. I motivi che m’inducono a fare quest’affermazione si basano sulla geometria, poiché i «numeri di Thoth» costituivano il sistema di proporzioni che sovrintese alla costruzione della Grande Piramide; per quanto sorprendente possa sembrare, la Pietra del Destino ci fornisce una via geometrica per generare una simile piramide.
Fonte: I Misteri della Pietra del Destino di Adrian Glibert – Harmakis Edizioni
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